Caro connazionale ti scrivo!


Caro connazionale, tu che occupasti un piccolo spazio angusto all’interno di quella nave colma di gente da sembrare una montagna. Una montagna di gente e disperazione che attraversava l’Adriatico in cerca di libertà, speranza e anche pane. Ricordi?

Sulla nave i bambini piangevano e le madri avevano gli occhi persi, fissi al cielo. Chissà perché guardavano continuamente in alto! Forse pregavano o forse insultavano Dio; o forse non avevano le energie nemmeno per pensare. Lo so, lo so che non puoi sapere cosa pensassero in quei momenti, ma quel loro sguardo inorridito e le loro mani paralizzate sono sicura che te le ricordi.

Arrivasti a Bari che avevi una sete terribile, di quelle che ti fanno essiccare le labbra, la pelle, le mani, il cervello. Ti misero all’interno di uno stadio, Vittoria si chiamava, ma che di vittorioso non aveva nulla! E poi ti buttarono da un elicottero un po’ d’acqua e un po’ di cibo. Sì, te lo buttarono proprio dal cielo senza avvicinarsi troppo, eri persona pericolosa per loro. Ma ti eri visto? In effetti i tuoi denti erano brutti, i tuoi capelli sporchi e gli abiti bruciati dal sole. Eri un selvaggio per loro e per di più pure molto affamato. No, non potevano avvicinarsi a te. Eri gente sconosciuta che veniva da un mondo sconosciuto e la tua disperazione spaventava a morte.

Ma non tutti per fortuna erano impauriti. Ricordi quel giovane carabiniere che fece finta di non vederti mentre scavalcavi il muro dello stadio. Quel bel ragazzo dagli occhi scuri, sopracciglia folte e quell’uniforme che stava così grande a quel suo fisico gracile. Ti fece pure un mezzo sorriso mentre ti lasciava correre per sparire nei i vicoli di Bari. Quel ragazzo non ebbe paura di te e lasciò che tu potessi cercare un piccolo spazio nel suo bel Paese. E la Signora piccola piccola che ti chiamò dal suo terrazzo bianco e pieno di fiori rossi, te la ricordi? Quella Signora che insieme a suo marito (lui era un po’ impaurito ma non lo diede a vedere) ti fecero entrare in casa e ti offrirono non solo un posto accogliente dove nasconderti per qualche giorno, ma che si presero anche cura di te in tutti modi, pensando anche alla tua igiene. Sì sì, dai che te la ricordi lei che con quelle mani di piuma ti tagliò quei ricci ribelli e sporchi; ti diede uno spazzolino e del dentifricio per lavarti i tuoi denti ingialliti forte dalle tante sigarette Durrësi che sulla nave ti fumavi una dopo l’altra; ti diede i vestiti di suo figlio emigrato in Germania per cambiarti e ti cucinò le orecchiette con le cime di rape. Certo che te lo ricordi il suo bel viso, il suo profumo di pulito e la sua grande bontà, anche se hai pensato poco a lei ultimamente.

Poi hai preso un treno per Milano, cercando di passare per italiano, sfuggendo agli sguardi dei carabinieri in stazione. Ce l’hai fatta! La signora, in così pochi giorni, era riuscita a trasformarti in un ragazzo “normale”, senza fame negli occhi e senza rabbia nei modi.

Sorridevi mentre vedevi il treno lasciare la stazione di Bari. La Signora ti aveva proprio contagiato con la sua allegria.

Arrivasti ottimista al Nord e tutto ti sembrò così grande, così pieno di vita e così pieno di possibilità per un futuro migliore. Pensasti alla tua fidanzata lasciata in lacrime a Tirana, dovevi fare in modo di portarla qui un giorno. Milano era bella, ma senza di lei non lo sarebbe mai stata abbastanza. La immaginasti in giro per negozi a comprare quello che desiderava. La immaginasti felice mentre accompagnava i vostri figli a scuola. Ti immaginasti libero e felice, insieme a lei, passeggiando per i parchi e per le piazze di questa stupenda città.

Anche lì, dopo giorni e notti che dormivi in quella panchina di legno al parco, arrivò un Signore sulla sessantina e prenderti per mano portandoti a casa sua. Sembrava il fratello della Signora barese per il sorriso e la grande generosità. Ti insegnò l’italiano tra grandi risate e canzoni di Toto Cutugno, Gianni Morandi, e Eros Ramazzotti perché piaceva molto a te. Ti trovò un lavoro, una casetta molto carina, una macchina piccola per spostarti con comodità. Litigò con amici, parenti, colleghi di lavoro un sacco di volte per combattere il pregiudizio nei confronti tuoi e dei tuoi connazionali. Si arrabbiò così tanto quando le persone a lui vicine ti trattavano con sufficienza. Lottò per te, lottò per sé, per i suoi principi umani, per migliorare la tua vita, ma anche la sua poiché aiutarti lo aveva aiutato a sua volta ad essere una persona migliore. Ti amò quell’uomo, ti amò e ti accompagnò come un padre nel lungo percorso di integrazione in una società che conoscevi così poco e che era così diversa da quella che appariva nei film e nelle pubblicità italiane.
Spesso hai sofferto la diffidenza degli italiani nonostante le lotte del tuo padre adottivo. Bagnavi il cuscino di notte e il giorno dopo cercavi di parlare italiano senza accento albanese così che nessuno ti chiedesse da dove venivi. Ti vergognavi tanto, troppo, in tv si parlava solo di albanesi cattivi e criminali.

Hai chiamato le tue figlie Giulia e Chiara, non dovevano avere nomi albanesi, loro non dovevano soffrire il pregiudizio come te. Loro non dovevano bagnare cuscini, non dovevano fare le tue lotte.

Ti mancava l’Albania, ma ogni volta che ci andavi non riuscivi a non sputare veleno per le condizioni disastrose di quel dannato Paese. Ti sentivi migliore, superiore, esperto di democrazia e libertà. In Italia ti trattavano da ospite, in Albania no, ma ospite ti sentivi tu.
E poi, un bel giorno, la musica è cambiata. In Italia sono arrivati immigrati da molti altri Paesi e di te non si parlava più. Cominci allora a camminare con la testa un po’ più alta; a non nascondere più le tue origini, a parlare delle tue origini senza rancore e con tanta nostalgia; a parlare delle tue origini anche con un certo orgoglio.

Ti sei pure tatuato l’aquila vicino al cuore. Non perderesti una partita di calcio della tua nazionale anche fosse sulla luna. Certo, a Giulia e Chiara non piace molto questo tuo grande cambiamento, ma tu ne vai fiero e lasci poco spazio alle loro opinioni. Che ne sanno loro, tu le hai nascosto quasi tutto del tuo passato; non le hai parlato della povertà, ti vergogni, come se quella povertà fosse stata una tua colpa; non le hai parlato di quel viaggio sulla nave-montagna, è stato un trauma mai superato in realtà; non le hai parlato dell’estrema sete; dell’estremo dolore; dell’estrema paura; dell’estremo bisogno d’aiuto; dell’estrema rabbia da razzismo quotidiano; della Signora barese che sapeva di dolci e profumava di sapone; del giovane carabiniere generoso dagli occhi vispi; ecc. Le hai protette da chissà quale sofferenza! O ti sei protetto tu, da chissà quale giudizio o colpa immaginaria. Hai nascosto, hai rimosso, hai rielaborato, sei sopravvissuto.

Ed ora eccoti qua, super integrato e fiero di quello che sei. Spesso hai una bella famiglia, una impresa tutta tua, dei figli ben istruiti. Hai un aspetto europeo e i tuoi ricci ribelli chi se li ricorda più?!

Eccoti caro connazionale, congratulazioni a te! Ma ora, anche se ti causa angoscia, è arrivato il momento di ricordare… Ricorda che non sei diverso o migliore da nessun altro essere umano di questa terra. Ricorda che ieri il nero eri tu, io, noi. Così come neri erano anche i milioni di italiani in America. Ricorda quando ci indignammo profondamente e ci arrabbiammo e ci ribellammo alle dichiarazioni razziste dell’allora Presidente della Camera, Irene Pivetti, la quale disse che gli albanesi andavano buttati a mare. Come poteva essere così insensibile, crudele, disumana una donna! Che poi, a mare, finimmo buttati davvero: si chiamava Kader i Rades quella piccola nave affondata a Otranto. Ci morirono 81 di noi tra bambini, donne, uomini giovani e vecchi. E noi piangemmo quei morti dal nord al sud per moltissimo tempo. E dopo quella tragedia, i barconi, le navi, gli scafi ricominciarono a partire comunque dalle coste albanesi. Era questione di sopravvivenza e tu lo sai bene.

Ricorda, caro connazionale, ricorda prima di diventare vittima dell’odio altrui; prima di diventare tu stesso uno che fomenta odio e pregiudizi; prima di andare a parlare senza cuore contro gli altri immigrati che stanno cercando, qui, quello che hai cercato e trovato tu; prima di aggiungere altro razzismo nel piatto dove hai mangiato per tutti questi anni a volte turando il naso; prima di diventare un essere insipido come solo gli smemorati sanno essere.
Quindi per favore fermati, siediti, leggimi ancora, pensa, ricorda la Signora con le mani di piuma; ricorda lo sguardo buono del tuo papà italiano; ricorda chi eri e da quale disperazione venivi.

Per questo sono seduta qui, ora, scrivendoti con una mano sul cuore, per invitarti a non perdere la memoria e per non far vergognare i tuoi figli, la tua gente, il tuoi due Paesi e… per non far vergognare i nostri morti. Ricorda.

Sonila Alushi www.albanianews.it


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